THE DODOS INDIVID

The-Dodos

I Dodos festeggiano dieci anni di attività con l’uscita di Individ, loro sesto full lenght album, pubblicato alla fine di Gennaio del 2015 e prodotto dalla Polyvinyl Records. Fu infatti nel 2005 che il cantautore Meric Long polistrumentista e studioso di percussioni africane e finger-picking blues debuttò con l’EP solista Dodo Bird. L’anno dopo i Dodos diventarono un duo con Logan Kroeber alla batteria per Beware Of The Maniacs (2006) un’umile collezione di canzoncine acustiche che definiva fin dall’inizio il loro stile: fondamentalmente un folk elegiaco che rastrellava elementi di ritmica africana, psichedelia ed elettronica sparuta nello stile degli Animal Collective, fortificato dall’indubbio genio di Long negli arrangiamenti che conferiva a tutti i brani un tocco di obliqua eccentricità.

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Questa prassi trovò un relativo picco con il successivo album del 2008 The Visiter col quale il duo ridefiniva il concetto di roots-rock nell’era del post-rock attraverso una memorabile carrellata fra bluegrass, pop e lo-fi tanto festosi quanto surrealmente controcorrente. Per il successivo Time To Die il gruppo aggiunse il vibrafonista elettronico Keaton Snyder spingendo la loro musica nei campi dell’indie pop ma perdendo qualcosa in originalità. Il successivo No Color (con Chris Reymer alla chitarra) del 2011 evitava le carenze del precedente, evocando il Kevin Ayers più lunatico e il Merseybeat più nevrotico in brani che tentavano di riconciliare melodia e strumentazione senza però riuscirci completamente. Il contemporaneo abbandono di Snyder e Reymer (sostituito da Joe Haege) lasciano il segno nel successivo Carrier (2013; primo per la Polyvinyl) che risulta essere il più inconcludente album del gruppo. Il nucleo fondante Long-Kroeber ritornò quasi immediatamente in studio per riparare al fallimento nonostante avesse pochissimo materiale già pronto. Forse è a causa della serie di lutti che ha colpito Long nel 2012 che il nuovo album Individ appare immerso in una evidente atmosfera dark. Nonostante le tipiche esplosioni melodiche, il canto di Long appare molto più triste e quasi impaurito rispetto al passato.

Significativamente l’album si apre con Precipitation, un requiem per archi, elettronica e chitarra distorta. Per il resto Long si affida ai suoi geniali e sistematici cambi repentini di melodia, ritmo e strumentazione (un classico trucco per aumentare il tasso di emotività) al fine di movimentare gli arrangiamenti dei suoi brani pur mantenendo costantemente un tono quietamente introspettivo e a volte vagamente disperato (il power pop singhiozzante di Goodbye And Endings, la batucada rallentata di Darkness). Come già in The Visiter, Long puntella il suo programma di rivisitazione del folk in senso moderno soprattutto spaziando fra differenti stili e aggiungendo generose cucchiate di elettronica o deragliando verso il noise (Competition, il post bluegrass di Tide, il boogie aereo con accordi anticipati di Retriever). Altrimenti si rifugia nelle sue amatissime elegie che possono prendere a volte la forma di un evergreen degli anni Cinquanta (Bubble), di un tipico dream-pop (Bastard), di una cantilena psych come la mini-suite finale di Pattern/Shadow che si avvale della collaborazione della cantante Brigid Dawson (dei Thee oh Sees) per raggiungere un appropriato tono melodrammatico. Probabilmente con Individ, i Dodos sono usciti dallo stallo di Carrier ma in futuro dovranno smetterla di giochicchiare con le loro emozioni emancipandosi da quel vizio di autoreferenzialità che dopo il capolavoro di Visiter sembra permanere nei lavori del gruppo.

di Alfredo Cristallo

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