NINE RULES

Nine Rules è un progetto lo-fi casalingo nato da un’idea dei fratelli Gianfranco e Marco Iaconantonio (in arte Johnion e Grachov) che hanno deciso di porre rimedio alla distanza che li separa (2000 km dal momento che uno vive a Petrizzi in Calabria e l’altro ad Istanbul) sviluppando un sistema di regole che consente loro di dar vita a una sorta di musica da camera prodotta con strumenti reali e virtuali (tramite loop pre-registrati) e vicina alle contemporanee influenze dell’elettronica ambientale e del trip-hop. Sostanzialmente il sistema di regole (nove in tutto) danno forma a una specie di gioco di composizione musicale ristretta a due persone in cui il primo giocatore crea un’AZIONE musicale, mandando un file WAV (cioè un file audio) all’altro giocatore,il quale risponde allo stesso modo con un’AZIONE di risposta e procedendo così a fasi alterne.

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Durante lo scambio non è possibile alcun commento e un’AZIONE può essere rifiutata soltanto una volta (il rifiuto è anzi esso stesso un’AZIONE). IL pezzo si conclude quando uno dei due ripete per due volte consecutive la stessa AZIONE. L’unica fase in cui i due lavorano assieme è quella del missaggio e dell’editing. Questo sistema permette di creare uno stile di musica estremamente proteiforme ed eclettica, evitando l’instaurazione di una figura o di un ruolo predominante all’interno del gruppo e oltrepassando nello stesso tempo i limiti della comunicazione verbale oltreché ovviamente della distanza. L’album che porta lo stesso nome del gruppo esce il 2 Settembre 2014 per LAFAME Records. Il suo fascino consiste nel fatto che dato che le regole non permettono alcun tipo revisione (perché a quel punto il brano si interromperebbe), quindi ogni brano non somiglia mai ad un altro poiché ogni fase del percorso intrapreso è perfettamente unico. Dal punto di vista melodico, la musica dei Nine Rules è vicina all’esperienza dei Labradford e dei Lamb (nei brani più vicini al pop) spingendosi a lambire l’estasi psichedelica dello sperimentalismo flower-power come ad esempio nella trance folkeggiante di The March resa sintetica dal battito di una drum machine o nella ballata intimista di The Eclipse (il singolo tratto dall’album) che scorre pacifica fra un piano minimale e scarni strimpellii di chitarra acustica. Per il resto la musica è quasi sempre lenta, nebulosa, anemica passando placidamente fra il tenue bisbiglio di Airport e la nenia circolare di Walkabout cadenzata da un twang chitarristico (ma ambedue cullate da droni ambientali), fra la ballata lenta alla Simon e Garfunkel di Feeble e l’acquerello impressionista di Checkmate che si sviluppa fra una voce in preghiera, un ritmo di bacchette e textures incrociate di piano e chitarra. Il duo sembra osare di più (quasi un sussulto di elan) quando si lancia nella trenodia lenta e minacciosa di Soldiers Of Fortune a ritmo di trip hop e il sortilegio minaccioso a passo di pow wow di Beatiful che finisce per ripiegarsi e concludersi in un finale vicino al pop dei migliori Depeche Mode. Il meglio è alla fine con The Day To Come, un tema di jazz astratto e rallentato prima disossato come nei brani più depressi di Nick Drake che si evolve improvvisamente in un trip –hop prima più drammatico ed esistenzialista poi più sincopato e nevrotico sulla scia di Lamb e Portishead. L’effetto complessivo dell’ascolto del disco è sempre allo stesso tempo coinvolgente e straniante nello stesso tempo. A pensarci bene il progetto musicale del gruppo ricorda e rimanda spesso alle elucubrazioni intricate e agli arabeschi emotivi e lunari del Robert Wyatt (del periodo Matching Mole), a cui sono accomunati dalla concezione collettivista del fare musica. Cosa che rende il gruppo ancora più interessante da seguire nel prossimo futuro e il loro album da apprezzare nell’attuale presente.

di Alfredo Cristallo

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