MARY MARGARET O’HARA: MISS AMERICA

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Gli anni Ottanta hanno avuto le loro icone pop, Kate Bush, Sinead O’Coonor, Cindy Lauper e

Madonna: le prime tre dotate di una grandissima voce, Madonna di un immenso talento che le ha

permesso poi di durare nel tempo. La fiaccola dell’idealismo spesso malinconicamente utopista è

stata tenuta alta da cantanti come Tracy Chapman (protagonista di una brevissima stagione), la

più sovversiva Michelle Shocked e Suzanne Vega la migliore di tutte. Il roots-rock ha avuto Natalie

Merchant (voce dei 10.000 Maniacs) e Margo Timmins (dei Cowboys Junkies). Persino il dark ha

avuto le sue eroine: Siouxsie Sioux madre di 500.000 ragazze dark, Elizabeth Fraser (dei Cocteau

Twins) con il suo soprano acrobatico e atmosferico, la più tenebrosa Lisa Gerrard (voce dei Dead

Can Dance). Tutte hanno segnato un’epoca e sono ricordate generalmente con piacere e nostalgia.

Accanto a loro quelle che sono state ingiustamente dimenticate. La più sfortunata è stata

sicuramente Mary Margaret O’Hara forse una delle più grandi cantautrici di tutti i tempi. Nata a

Toronto e sorella della più nota attrice Catherine O’Hara (la madre di Macaulay Caulkins nella saga

di Mamma ho perso l’aereo), studiò arte e design e cominciò la sua carriera collaborando con

diverse band locali. Quando l’ultima di queste i Go Deo Chorus si sciolsero nel 1983, ottenne un

contratto da una major (la Virgin) per registrare un album, ma occorsero 4 anni perché il lavoro

fosse completato. Miss America (1988) è un lavoro lontano anni luce dal sound del tempo.

Innanzitutto è un monumento alla voce della O’Hara, stravagante, sovrumana, intensa (tre

spanne sopra quella di Amy Winehouse), un soprano cristallino le cui acrobazie sfidano le

convenzioni temporali. L’album parte col lamento intimo di To Cry About che impiega oltre 2

minuti e mezzo (su 3 e mezzo) prima di trasformarsi in una canzone. Al confronto Year In Song è

quasi hard-rock, in realtà il palcoscenico per la cantante per variare vorticosamente da un registro

all’altro (bambinesco, irritato, disperato, estatico, nevrotico). Body’s In Trouble e Dear Darling

sono ballate folk nobilitate dalla sua voce plastica e avvincente. A New Day un ragtime e Help Me

Lift You Happy un salmo country sono numeri drammatici cantati con austera religiosità. Più

terrene sono My Friend Have un country teso alla Giant Sand e il blues-rap zoppicante di Not Be

Alright, altrettante rampe di lancio per la voce di MM. Persino nei soul-jazz convenzionali When

You Know Why You’re Happy e Keeping You In Mind la O’Hara trova modo e maniera di rivelare il

suo talento: che è quello di costruire lieder con dinamiche pop, decostruirle con arrangiamenti

astratti e riassemblarle secondo logiche personali facendole diventare capolavori di cantautorato

intimo come nell’eccezionale finale in punta di piedi di You Will Be Loved Again per sola voce e

contrabbasso. Mary Margaret O’Hara fonde tecniche d’avanguardia (alla Meredith Monk) e stili

gospel come forse nessuno è mai riuscito a fare con simile grazia e complessità. Purtroppo l’album

non ebbe alcun successo commerciale e la cantante sparì dalle scene registrando con altri autori

(fra cui Jane Siberry altra canadese con uno stile simile al suo, e Morrissey) e apparendo in un CD

natalizio del 1996. Nel 2002 è finalmente tornata con la colonna sonora del film Apartment

Hunting.

di Alfredo Cristallo

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