EMMANUELLE SIGAL Table Rase

A due anni dal suo promettente album di debutto Songs From The Underground, ritorna
Emmanuelle Sigal col suo nuovo Table Rase, uscito il 17 Novembre 2017, ancora per la label
Brutture Moderne. Il nuovo lavoro si rivela fin dall’inizio un riuscito connubio fra la splendida voce dell’artista franco-palestinese (un mix fra il tono elegante e sensuale di Francoise Hardy e la maestria vocale di Mary Margaret O’Hara) e un sound che si dipana con facilità fra ritmi caraibici, brividi jazzy (con predilezione per quello dei fumosi caffè sotterranei parigini) e qualche incursione nel folk, il tutto amalgamato dal brillante arrangiamento affidato all’accorta produzione di Francesco Giampaoli che partecipa anche al disco (basso e tastiere), insieme a Diego Sapignoli (batteria; compagno di Giampaoli nella band dei Sacri Cuori), Marco Bovi (chitarra, mandolino), Enrico Farnedi (fiati e mellotron), a cui si aggiunge in ben 6 dei nove brani la splendida tecnica chitarristica di Marc Ribot (qui anche al mellotron). Le architetture sonore scorrono ben oliate dando all’album un’impalcatura che si fa apprezzare per la freschezza e la vitalità.

L’accostamento fra jazz e ritmi centroamericani, valorizza entrambi dando corpo a un sapiente cocktail fra qualità tecnica, un sound d’assieme insieme delizioso e compatto (con la strumentazione tradizionale significativamente estesa ai fiati e a una cornucopia di tastiere) e un background armonico suggestivo e ammaliante. Tutto o quasi è solare in questo LP a partire dalla title-track, da Rien Qu’Des Yeaux Pour Toi e da Laisse Les Parler, pezzi vellutati e coloratissimi fra jazz e quadretti parigini d’altri tempi, percussioni da foresta tropicale e chitarre mollemente fusion. Questo programma raggiunge un buon zenith nel festival ritmico sulla melodia salsa di Small Talk e nella filastrocca swing anni Trenta di Telephone Call From Istanbul. Una variazione di quest’ultimo brano è lo swing spruzzato di music-hall di Broadway di Never Give Jams To Pigs.

Leggermente scostati dalla filosofia generale dell’album rimangono il folk appalachiano di Bless, il reggae di Clean Me Rain e il tex mex elementare di Non Lo So che recuperano coi ritmi serrati e in levare quello che perdono in allegria. I testi ironici, divertiti, disincantati, infittiti di giochi di parole e doppi sensi completano il menù.

Forse Table Rase non sarà il disco più originale dell’anno o del decennio (l’influenza dei Les Negresses Vertes si sente) ma si fa apprezzare per la evidente sincerità e per lo sforzo decisamente ben riuscito di trasmettere contemporaneamente esuberanza, fantasia e misura. Un terzo dell’album è sorretto dalla voce della Sigal che canta in francese, inglese e italiano ma un terzo è dovuto decisamente alla produzione che riunisce melodie gioviali e arrangiamenti alla Van Dyke Parks. Marc Ribot laddove suona è bravissimo.

di Alfredo Cristallo

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